Vieni a vedermi dentro

Le tornava da Roma, pronta per una sosta nel verde dell’immaginazione di C. che la portò a sporcarsi di fango e a ubriacarsi nel bar del paesino claustrofobico in cui era vissuta. La guidò lungo i vicoli, la fece cantare nel mondo pieno di luci in cui viveva Teddi, la sua niña bruja  con gli occhi come laghi, in cui nuotano pesci dorati. La fece ridere, pranzare con pane e prosciutto sui prati in cima alle colline. Le comprò cioccolato e birra da mangiare in treno, divise con lei bicchieri di Mojito colmi in riva al mare, anche se c’era una pioggia terribile. Percorrevano i giorni a bordo dell’orrenda panda bianca di suo zio, che in salita emanava odore di frizione bruciata.

Era come essere eterne, eterne sotto un sole che non si trasformerà mai in un buco nero. Le imparava la strana lingua degli anziani, guardava i gatti correre liberi, e leggeva sempre più a fondo nelle rughe ai bordi delle labbra di C.

Dormì accanto a lei nella sua stanza piena di nani rubati dai giardini, di barattoli di spezie, di ricordi di una vita che l’aveva resa una bambina sotto i cieli grigi di Milano. Sugli armadi c’erano foto e scontrini e biglietti dei concerti, come se fossero mappe travestite da armadi.

Era come conoscersi di nuovo, senza essersi mai dimenticate.

E C. lasciava che tutti i campi che le abitavano dentro si tuffassero nel grigio-blu degli occhi di Le.

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